ANNI '60: panchine,
presidenti ed altre storie
L'affare Sormani e il gol di Nicolé
Dal conte Marini Dettina all'onorevole Evangelisti. Da Foni a Lorenzo attraverso
Mirò. E in mezzo, atleti noti e discussi. Come il brasiliano o l'ex juventino.
Che vinse la Coppa Italia
Imperversavano i maghi, ma nella Roma intanto, che succedeva? Che squadra era,
che società? I giallorossi, come é facile ricordare, dopo aver
vinto la Coppa Uefa erano stati trasferiti dalle mani nervose di Luis Carniglia
a quelle più carezzevoli di Alfredo Foni, richiamato dal conte Marini
Dettina. Foni aveva faticosamente portato a termine lo stentato campionato 1962/63,
e nei pochi mesi in cui aveva guidato la squadra aveva già raccolto un
carico di critiche da seppelIirlo.
Alla vigilia del torneo '63/64 però, sembrava un altro uomo. Forse perché
ambiva alla rivincita, forse perché agitato da un sussulto di orgoglio:
certo é che sembrò accompagnato da nuovi amati ispiratori, animato
da più urgenti propositi. Restò famoso il suo proclama di Thun
-la cittadina Svizzera sede del ritiro- nel quale Foni annunciava una Roma rigenerata
nella forma e nella sostanza. Nelle forme, perché era stato acquistato
un fuoriclasse come il brasiliano Angelo Benedetto Sormani, che si era messo
in grande evidenza nel Mantova; nella sostanza, perchè la Roma, assicurava
Foni, aveva finalmente cambiato mentalità, e si sarebbe comportata con
la sicurezza di una squadra da scudetto. Mai piùabbandoni, mai più
tradimenti. Sormani dunque. Doveva essere il trionfo del conte Marini Dettina
e fu l'inizio della fine. Quel vulcano spento che la Roma sembrava da molto
tempo, cominciò ad eruttare in modo violento: fuoruscivano soprattutto
polemiche e debiti, la distruzione era vicina. Sormani fu pagato infatti mezzo
miliardo, cifra colossale per quel tempo e insopportabile per la Roma. Il deficit
aumentò vertiginosamente, l'opposizione al Conte, ispirata soprattutto
da Franco Evangelisti, divenne aggressiva e incalzante. Dal ritiro di Thun,
scesero verso Roma Orlando, Manfredini, Corsini e Carpanesi: espulsi perché
in disaccordo economico. Intervenne Evangelisti, diventato Onorevole, e sistemò
tutto: ormai era il nume tutelare della società. La Roma del proclama
di Thun prevedeva molte novità, oltre all'arrivo di Sormani in virtù
del quale Manfredini diventata un rincalzo; erano partiti Lojacono, Guarnacci
e Menichelli, c'era un certo tedesco Schutz. Quella Roma che avrebbe dovuto
cambiar pelle ma che in sostanza rimase tale e quale a prima, vagante nel grigiore
di una mediocrità ogni tanto squarciata e riscaldata da un buon risultato,
era la seguente: Cudicini; Fontana, Ardizzon; Malatrasi, Losi, Carpanesi; Orlando,
De Sisti, Sormani, Angelillo, Leonardi. Le principali alternative erano il portiere
Matteucci, Manfredini appunto e il tedesco, Schutz. Ci fu un brillante inizio
di campionato, un buon andamento in Coppa Italia, il bagliore di un'illusione.
E qui cascò l'asino, che è un solo un modo di dire, perchè
Alfredo Foni era uno dei pochi allenatori colti e avveduti. Una rarità,
per quel tempo. Spento il bagliore dell'illusione, la Roma rientrò precipitosamente
nei ranghi. Foni ricordò il proclama di Thun, era un gentiluomo pieno
di dignità, si rese conto del fallimento e si dimise. Era novembre, la
crisi stavolta era stata precoce.
Al mago, al mago
Cominciò così il tempo dei maghi. Colta di sorpresa dalle dimissioni
di Foni, che secondo l'opinione di tutti stava invece cuocendosi a fuoco lento,
la Roma interpellò tutti gli allenatori disponibili, dalla Svezia all'Uruguay,
dalle Alpi alla Sicilia, e infine scelse lo spagnolo Luis Mirò, che avendo
allenato il Barcellona non era uno sprovveduto, ma lacui fama non, aveva mai
raggiunto i nostri lidi calcistici. Quanto poteva durare l'ignaro Mirò,
in una situaZione che faceva acqua da tutti le parti? Poco, e poco durò:
solo il tempo che mancava alla fine del campionato, che fu modesto. In compenso
la Roma proseguiva nel cammino in Coppa I ta_ia e si era assicurata la finale.
Fu a questo punto che si gridò: al mago, al mago! Helenio Herrera era
impegnato con l'Inter, quindi il mago poteva essere solo Juan Carlos Lorenzo,
che in maglia biancazzurra laziale riempiva di sé le cronache di tutti
i giorni. Lorenzo era in pieno dissidio ideologico con la Lazio, perché
società e allenatore avevano progetti dissimili, il passaggio dall' altra'parte
del Tevere poteva essere tentato. Per facili tarlo, la Roma versò alla
Lazio una specie di conguaglio di cinquanta milioni.
El conquistador fa cilecca
Lorenzo «el conquistador», dicevano: ma non arrivò neppure
al cancello sulla strada. Non c'era una lira. Sotto la gestione Marini Dettina,
la Roma stava soffocando, coperta di debiti. Non si poteva neppure rimproverare
al Conte di non aver speso: anzi! Ma quando spendeva, la Roma spendeva male.
Sormani era un campione, chi lo negava? Ma aveva giocato 25 partite e segnato
solo 6 gol, che non avevano provocato alcuna svolta. E prima che si intristisse
anche lui, fu ceduto alla Sampdoria. Tornò intanto Schnellinger, mentre
venne effettuato un solo ingaggio, quello del centravanti Nicolè. E qui
fermiamoci un attimo, perchè Nicolè detiene un singolare record.
Ha giocato nella Roma una sola stagione, ha disputato in Coppa Italia solo la
finale, nella quale è stato segnato solo un goI. Quel gol è stato
opera di Nicolè che così ha regalato alla Roma la prima Coppa
Italia della sua storia. Nicolè era un ragazzone di grande potenza solo
immaginata. Sarebbe stato il nuovo Nordahl? Addirittura.
Il ragazzo si appesantì presto, grossi problemi accompagnarono la sua
maturazione fisica, invece di acquistare agilità perse anche quella (poca)
che aveva. Abbandonò rapidamente la scena. La finale di Coppa Italia
fu disputata a Roma il 4 settembre. Finì sullo 0-0 e per regolamento anche
la ripetizione avrebbe dovuto aver luogo all'Olimpico.
Invece la Roma accettò la proposta del Torino che per ottenere l'inversione
del campo offrì la fetta maggiore dell'incasso. In quei tempi di carestia,
era manna dal cielo. Lorenzo conquistò la Roma con una sola mossa, entrando
in modo geloso nei cuori giallorossi. Fu infatti don Juan a convincere la Roma
che era opportuno giocare a Torino. «Ci conviene, li colpiremo di rimessa,
è un gioco nel quale siamo maestri!» E andò proprio come
aveva predetto don Juan. El conquistador. Con un'altra mossa, una sola, dai
cuori giallorossi Juan Lorenzo uscì per sempre. Era un personaggio che
amava gli eccessi, e non poteva restare indifferente davanti alla grave crisi
economica che stava strozzando la Roma, e che"aveva portato alla sospensione
degli stipendfe alla minaccia di sciò pero. Allora Lorenzo organizzò
la colletta, quella sciagurata matinée al Sistina. In queste condizioni,
era difficile procedere bene, anche in campionato: ma Lorenzo, umorale e passionale
com'era, riuscì a complicare maledettamente le cose. Se Luis Carniglia
aveva dato l'ostracismo a Manfredini, lui invece assicurò a Pedro la
propria protezione, mentre non riuscì a stabilire un rapporto di collaborqzione
e di solidarietà con Angelillo. Non si capivano proprio, e furono scintille.
Un intervento chirurgico al ginocchio di Angelillo interruppe quella che era
diventata una vera guerra fredda. Manfredini dal canto suo ringraziava don Juan
per l'attenzione, ma ormai la maglia giallorossa gli sembrava sbiadita fino
ad un grigio indistinto. E sotto quella maglia incolore si sentiva straniero.
Voleva andarsene, sognava l'Inter, e una sera alcuni facchini tifosi giallorossi
lo videro scendere dal treno in arrivo da Milano. Pedro era stato, personalmente
e di nascosto, a trattare il suo eventuale trasferimento. Quella fu comunque
l'ultima stagione in giallorosso. Con questa Roma che gli sfuggiva da tutte
le parti, in società e in campo, Don Juan arrivò solo nono. Il
leader era ormai Picchio De Sisti. Franco Evangelisti aveva praticamente scalzato
Marini Dettina.
Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport
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